Risponde lo psicologo – Imparare a perdere
Un nuovo interessante contributo su un tema di psicologia a misura di bambino della dottoressa Manuela Arenella, psicologa psicoterapeuta, specializzata in psicoterapia dell’infanzia e dell’adolescenza.
Il problema che affronta qui è molto diffuso: come fare a convincere i bambini che non è sempre possibile vincere e che, come si diceva un tempo, ogni tanto “bisogna saper perdere”?
DOMANDA
A 4 anni, il mio bambino non accetta di “perdere”. Quando facciamo un gioco da tavolo, vuole essere sempre il vincitore; se per esmepio tirando i dadi gli escono numeri bassi vuole farlo di nuovo, e se vede che arriva “solo” secondo comincia a piangere, e si arrabbia molto.
Se si comporta così a casa, sicuramente lo farà anche con gli altri bambini. Come si può fargli capire che si può anche perdere?
RISPONDE LA DOTTORESSA MANUELA ARENELLA
La domanda pone l’attenzione su un aspetto importante (e spesso controverso): bisogna lasciar vincere i bambini oppure no?
Alcuni genitori sostengono che lasciarli vincere è un po’ ingannarli e che bisogna “abituarli da subito alle sconfitte per renderli più forti”.
In realtà, spesso questo atteggiamento ha un effetto boomerang che anziché rafforzarli li rende più fragili.
Da piccoli, almeno fino ai 4-5 anni è importante lasciare che il bambino vinca, lodandolo, per rafforzare il suo senso di egocentrismo che, a questa età, è sano ed è alla base della sua autostima.
Più un bambino sperimenta situazioni di riuscita, di successo, più si sentirà capace e più verrà nutrita la sua autostima. Una fiducia in sé stabile gli permetterà poi, successivamente, di affrontare anche le sconfitte inevitabili nella vita, o il confronto con i pari, che non ci fanno sconti!
Al contrario, un bambino posto troppo precocemente di fronte alle sconfitte urta contro una realtà troppo dura per lui, e che lo porta a sentirsi fragile e incapace e a credere che perdere in un gioco significhi essere perdente.
Per questo sarebbe raccomandabile lasciare che in famiglia sperimenti la sensazione di essere un campione, ben sapendo che poi le batoste arriveranno inevitabilmente fuori, nel confronto con gli altri.
Questo non significa iperproteggere o sostenere atteggiamenti di onnipotenza, ma calibrare le frustrazioni in base all’età.
Almeno fino ai 4 anni i bambini hanno assoluto bisogno di sentirsi “campioni”, perciò pur di vincere fanno di tutto, anche “barare”, perché ne va della loro dignità!
Tornando alla domanda, per far recuperare al bambino la fiducia in sé bisognerebbe farlo vincere e poi piano piano, una volta che lo si vede più sicuro, inserire qualche pareggio o qualche sconfitta, ribadendo che “vince sempre chi si diverte”, o che nelle gare “qualche volta si vince e qualche volta si perde”, ma c’è la possibilità di rifarsi, quindi non si è perdenti.
Sarebbe importante riflettere anche su che rapporto hanno gli adulti stessi con le sconfitte o gli errori, e ricordare che più ci si sente “campioni in casa”, più forza si ha per affrontare le sfide della realtà!
MANUELA ARENELLA, psicologa psicoterapeuta, specializzata in psicoterapia dell’infanzia e dell’adolescenza a Bologna, già da alcuni anni tiene corsi di formazione per educatori di asili nido e personale docente, ma anche per genitori, in varie località della Romagna e a San Marino.
Svolge attività libero-professionale presso proprio studio a Bellaria (via Conti 37) e a Bologna. Ha rapporti di collaborazione consolidati con i Servizi Educativi di San Marino e con il Centro per le Famiglie di Rimini, organizzando serate a tema su diverse tematiche, in particolare sui bisogni dei bambini, le relazioni interfamiliari e il valore delle regole.
Credo che la preoccupazione posta nella domanda sia un po’ più profonda: il desiderio di vincere e le razioni alla sconfitta in casa si possono in qualche modo gestire, magari anche cercando di incrementare le vittorie del bimbo, ma fuori casa con altri bimbi non è così semplice. Non è bello vedere il proprio figlio inscenare capricci pazzeschi perchè non sa accettare la “sconfitta” in un gioco. Non sono così certo, anche se lo dico sottovoce perchè non sono uno psicoterapeuta, che l’autostima passi solo attraverso la possibilità di sentirsi un campione, possibilità costruita ad arte e quindi “non sempre credibile” neppurre dal bimbo stesso. I bimbi non sono così ingenui… Nel gioco entrano in campo più dinamiche e porre l’accento sul vincere non sempre è produttivo… l’arrivare in fondo, il migliorare, il divertirsi, il confrontarsi e anche il saper accettare che un altro possa fare meglio di te in quel momento, è importante. E’ logico che un genitore in ogni gioco è vincitore in partenza, infatti con i propri figli non si devono inscenare sfide, si deve giocare. Alle batoste che arriveranno irrimediabilmente fuori come ci si prepara?
È sempre bello e stimolante ricevere osservazioni e commenti, che testimoniano una grande attenzione intorno all’universo dei bambini e agli aspetti relazionali che nutrono il loro processo di crescita. Rispetto al tema in questione, cioè la gestione delle sconfitte e l’imparare a perdere, proviamo a fornire alcuni chiarimenti.
È certamente vero che il discorso è più profondo, ma è altrettanto vero che è difficile approfondire l’analisi di una situazione avendo a disposizione poche righe per inquadrarla.
I pochi suggerimenti che si possono dare in queste situazioni non tengono sicuramente conto della complessità dell’esperienza relazionale in cui un bambino si trova immersi e delle dinamiche che da questa scaturiscono, ma le vostre richieste di approfondimento sono ottime occasioni per chiarire ulteriormente tale complessità.
I bambini nascono assolutamente onnipotenti, convinti del fatto che siano loro a „creare” il seno che li nutre e l’abbraccio che li tiene, e questa „illusione”, nei primi mesi, è assolutamente positiva e l’adattamento dell’adulto è funzionale a consolidare questo loro sentirsi importanti, gettando le basi della loro autostima.
Col passare del tempo e con l’arrivo di frustrazioni minime, correlate all’età, dall’onnipotenza si passa all’egocentrismo (3-6 anni), cioè alla consapevolezza di essere „separato”, distinto dalla mamma, ma comunque al centro di tutto ciò che gli accade intorno, che risulta essere egoriferito.
Compito dell’adulto, a mio avviso, dovrebbe esssere quello di allenare il bambino alle frustrazioni e ai limiti, che incontrerà anche fuori, ma comunque sostenendo il suo senso di „specialità”, di unicità.
Qui non si tratta di „ingannarli”, ripetendogli che sono campioni in modo decontestualizzato e poco credibile; si tratta di SENTIRE, di essere convinti della loro specialità e unicità, e restituirgliela al di là delle vittorie o sconfitte. Ripetergli delle formule vuote, in cui non crediamo, non serve a niente, poiché, come sottolinea lo stesso commmento, i bambini hanno le antenne e sono assolutamente attenti all’AUTENTICITA’ del sentire adulto(che spesso dipende anche dalla storia personale di ogni genitore, dal modo in cui hanno cresciuto noi per primi).
Manuela Arenella