Un anno con il coronavirus

Ed è ormai passato un anno. Un anno di distanziamento sociale, di limitazioni negli spostamenti, di rinunce. Un anno senza palestra, piscina, cinema, teatro; senza potersi organizzare con degli amici per una gita, o anche solo una camminata, per esempio in montagna; senza viaggi, o almeno senza la spensieratezza con cui ci mettevamo in viaggio fino a pochi mesi fa; senza serate in pizzeria, a ridere e scherzare con familiari e amici. Un anno senza gli abbracci di figli e nipoti, quegli abbracci caldi e avvolgenti che ci fanno sentire davvero la vicinanza e l’amore.  E questa è forse la privazione più dolorosa.

Privazioni alle quali, lungi dall’abituarci, molti di noi reagiscono con una sofferenza sempre maggiore. Un anno fa, la scorsa primavera, abbiamo in genere sopportato meglio la reclusione: le notizie sull’infuriare del contagio ci avevano tramortito, eravamo annichiliti di fronte al numero dei morti, avevamo la sensazione che anche la medicina fosse quasi priva di armi, però tutto sommato (almeno in generale, per chi non è stato dolorosamente colpito dal contagio) il periodo di reclusione in casa ci è pesato di meno. Ci sembrava che sarebbe stato un sacrificio di breve durata e che poi tutto sarebbe tornato come prima. E anche la stagione, quella primavera che avanzava, e che l’anno scorso ci ha regalato giornate particolarmente dolci, ci predisponeva all’ottimismo. Era il periodo dell’inno italiano che risuonava dalle finestre, dei cartelloni dell’“Andrà tutto bene”, degli scambi di lievito madre tra vicini…

In autunno abbiamo accolto con animo ben diverso il nuovo aumento del contagio. Ci siamo resi conto che la lotta contro il virus non è una battaglia, ma una vera guerra, e che avrà tempi lunghi. E le privazioni ci hanno colpito in maniera più profonda, parallelamente alla presa di coscienza che la nostra economia sta davvero vacillando, che molti hanno perso il lavoro, che tante famiglie si sono ritrovate in difficoltà economiche. E mentre da un lato ci siamo scoperti dolorosamente “anestetizzati” di fronte al bombardamento di notizie sui contagi e sui morti (che continuano a essere tanti, troppi, inspiegabili!), dall’altro in molti di noi italiani è cominciata a crescere un’insofferenza rispetto alle misure restrittive, che ad alcuni sembrano eccessive e ingiustificate.

Ma parallelamente si è ormai insinuata nel nostro animo la paura. Quella paura che ci tiene a distanza anche quando incontriamo un amico o un conoscente, che nei supermercati ci fa appiattire contro gli scaffali se incrociamo un altro cliente, che ci ha scendere dal marciapiede quando incrociamo qualcuno che cammina nel senso opposto. Atteggiamenti che sono ormai diventati automatici, che assumiamo senza quasi rendercene conto. E questa è la cosa più dolorosa.

Una nota di speranza però ora c’è: quel vaccino che è arrivato da poco, e che speriamo possa stroncare una volta per tutte il contagio. Con l’augurio che presto il coronavirus possa essere solo un ricordo e che possiamo tornare alla nostra vita di prima, portandoci dietro il ricordo e l’esperienza di quanto è successo in questi mesi terribili e inimmaginabili sono un anno fa.

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