Un Natale di tanti anni fa

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Questo è un raccontino che mio padre, lo scrittore Mario Pomilio, ha scritto tantissimi anni fa, quando io ero piccina.
L’ho recuperato da un cassetto e lo ripropongo a voi, cari nonni, per un tuffo nella memoria, nella certezza che anche voi vi ritroverete le atmosfere dei Natali della vostra infanzia.  

 

 

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Quest’anno l’attesa del Natale, a casa mia, è cominciata presto. È cominciata da quando, una domenica di fine novembre, sono rientrato con una decina di pupazzetti per il presepe e, dopo averli allineati l’uno accanto all’altro su un tavolo, sono andato a scovare, in fondo a un ripostiglio, la scatola di quelli vecchi, per controllare e vedere se ce n’erano da scartare.
caprettaPer tutto il corso dell’operazione, Annalisa ha preteso di aiutarmi, e cioè è rimasta in piedi su una seggiola, allungando di tanto in tanto una mano per accarezzare la testa di un pastore o raddrizzare una capretta che s’era rovesciata o domandarmi dieci vplte perché un cammello avesse la gobba e uno dei re magi la pelle nera. Poi ha perfino consentito a che riponessi i pupazzetti nella scatola e la scatola nel ripostiglio, felice perché le consentivo di tenersi la statuina di una lavandaia alla quale lo scorso anno, quando cioè, come lei dice, era “piccina”, aveva rotto ambedue le braccia.
Annalisa ha ora tre anni e tre mesi. Ma si considera “grande” perché, dice, va a scuola (e in realtà frequenta l’asilo), e se le domandi chi è più grande, lei o papà, lei scarta deliberatamente quel “più” che l’impaccia, e risponde: “È grande Annalisa ed è grande pure papà”; e a termine di riferimento per l’infinita piccolezza ha scelto il fratellino Tommaso, che ha quasi un anno e mezzo ed è di poco più basso di lei.

Ma, ripeto, da quella domenica è cominciata in casa l’attesa del Natale. E, se lascio per caso il mio studio ed entro nella stanza dove un attimo fa udivo Annalisa chiacchierare con la mamma, avverto subito un silenzio complice. E se domando, come ormai domando di proposito ogni volta, che cosa stiamo complottando, le due si scambiano un sorriso d’intesa, e mentre la mamma mi dice ammiccando che io non c’entro e non debbo sapere, Annalisa mi corre tra le gambe per spingermi fuori dalla stanza. Perché Annalisa, come la mamma m’ha confidato, sta imparando di nascosto le poesie per Natale: e vuole recitarne due, una per il papà e una per i nonni (dato che i nonni verranno a passare le feste con noi) e vuole farci, a tutti e tre, una sorpresa. E chi sa che, per una di quelle strane trasposizioni che noto nella sua memoria di bambina capace di dimenticarsi delle cose di ieri e di rivivere come presenti esperienze e stupori di vari mesi fa, chi sa, ripeto, che non si rammenti, oscuramente e per puri piani di sentimento, del Natale dello scorso anno, e aspiri come a una rivalsa.

Lo scorso anno la preparazione della poesia di Natale cominciò una quindicina di giorni prima. E a tavola ben presto diventò per lei un’abitudine recitarceli a memoria, quegli otto settenari che lei gestiva correndo con gli occhi dietro il moto delle mani, e un’abitudine per noi, dopo averla lodata, parlarle del Natale e dell’arrivo dei nonni e suscitarle in tal modo il senso d’un’aspettativa.
presepe-capannaPoi fu finalmente il giorno della vigilia di Natale, e arrivarono davvero i nonni, e con essi la baraonda che producono tutte le loro venute, e ci fu il presepe approntato alla svelta in un angolo del tinello, e accanto al presepe il piccolo albero natalizio.

Annalisa per tutto quel giorno andò correndo stranita da una stanza all’altra, si stupì, urlò come poteva, volle toccare ogni cosa, ruppe un paio di palloncini di vetro lustro e sbottò a piangere dopo averlo fatto, lasciandosi però subito consolare dalla nonna. E si vedeva, nella sua eccitazione, che nella mente l’idea che s’era fatta del Natale cresceva via via di dimensioni.
E ci fu infine la cena grande della vigilia, quella che nel Mezzogiorno è il vero cuore della festa. E alla fine della cena, durante la quale anche Annalisa ebbe la sua parte di tutto e pretese di mangiare senza farsi aiutare, venne il momento solenne, quello in cui la mamma annunziò che Annalisa avrebbe recitato la poesia, e i nonni fecero finta di stupirsene, e la nonna scherzò a mostrarsi incredula e a dire che non era possibile che una bambina così recitasse la poesia, e lei, Annalisa, si levò in piedi sulla sedia.

A turbarla dovette essere il silenzio improvviso che le avevamo fatto intorno, e con esso la sensazione d’essere troppo piccola, nonostante la sua seggiola, al confronto non solo di noi, ma della festa che si stava svolgendo e che, lei certo lo intuiva, era così solo perché c’era lei. Fatto sta che la vidi guardarci: a lungo, uno per uno, con due occhi pieni di muto smarrimento. E bastò che sua madre si provasse a incoraggiarla: “Su, Annalisa, su”, e a suggerirle, sillabando, la prima parola del primo verso, perché le sue labbra s’atteggiassero a una smorfia rattenuta di pianto. Dopo un attimo s’era rifugiata tra le braccia della mamma a piangere e a gridare dirottamente: “Mammina!”
Neppure più tardi, allorché si fu calmata, neppure l’indomani o gli altri giorni fu possibile né a noi né ai nonni farle recitare la sua poesia.

Certo non è verosimile che a dodici mesi di distanza Annalisa conservi un ricordo qualsiasi di quell’episodio. E nemmeno che colleghi quella sua infelicità d’un’ora con l’idea del Natale di cui adesso le parliamo e che di nuovo si scava spazi di confusa letizia nella sia immaginazione. Ma chi sa che, al fondo dell’impegno col quale in questi giorni sta imparando le sue due poesie, non ci sia in lei anche l’oscura coscienza di doversi comportare, adesso che è “grande”, altrimenti da quando era “ancora piccina”.

Mario Pomilio

 

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